La Caremma

“E’ brutta come una Caremma”, ”è una Caremma”, “ha la faccia di una Caremma”, “è vestita come una Caremma”: sono espressioni cuiun tempo si ricorreva per offendere o dileggiare una donna, rimaste oggi solo nella memoria degli adulti.

Tutto ha inizio con la Quaresima salentina.
Il mercole dìdelle Ceneri faceva la sua truce comparsa, agli angoli delle strade, sospesa ad un filo teso tra due abitazioni, sulle terrazze della case o appesa ad un palo piantato per terra nei cortili che davano sulle strade, la Caremma, un fantoccio di paglia e di stracci con le sembianze di una vecchia, senza denti, vestita di nero, con la testa coperta da un fazzoletto nero e dall’aspetto orribile.

Era seduta su una logora sedia, con nella mano sinistra un filo di lana con un fuso e nella destra una marangia (arancia amara) infilzata da sette penne di gallina. In alcune zone del Salento la marangia e le penne erano sostituiti con sette taraddi (o “tortani te orgiu”,un particolare pane nero fatto con l’orzo, che aveva la proprietà di resistere alle muffe per diverse settimane) intorno al braccio o alla vita.

E’ figlia della cultura contadina che si esprime con simboli, un primitivo medium, perché ciò che non poteva essere registrato doveva essere ricordato presentandolo in modo memorabile: il vestito nero era segno del lutto, il fazzoletto sulla testa indicava la vedovanza, il filo colfuso rappresentava  il  tempo che scorre, la marangia col suo sapore amaro rappresentava la penitenza e la sofferenza, i neri e durissimi ”tortani”ad indicare il lutto e le privazioni e la durezza del periodo in cui si avevano solo giorni di digiuno e di sacrificio, le sette penne di gallina (di cui una bianca che veniva tolta per ultima), simboleggiavano le sette settimane di Quaresima che precedono la Pasqua. Allo scorrere di ogni settimana si toglieva una penna, come se fosse un rudimentale calendario per contare le settimane quaresimali, recitando una filastrocca:

una le mendule

doi le carendule

tre li nuci

quattru le cruci

cinque ‘a passione

sei le Parme  e la crucifissione

sette ‘a Pasca ca  risorge u Signore

se mangia aunu (agnello) e‘a Caremma more

Anche nella filastrocca, la Caremma  simboleggia la mortificazione del corpo neltempo che scorre, metafora del dolore umano che segue la perdita di una grande gioia, ma anche metafora dell’astinenza, della privazione, del pentimento, del sacrificio e della sofferenza. Era in questo periodo, amaro come la marangia, o durissimo come il tortanu, che si digiunava, si pregava e ci si predisponeva alla Resurrezione del Cristo nel giorno di Pasqua. I cristiani, adottando questa usanza operavano una continuità con le pratiche espiatorie dell’AnticoTestamento: seguendo l’esempio del Cristo, si praticava il digiuno e ci si allontanava dai beni e dalle seduzioni del mondo aspettando nella povertà il banchetto pasquale.

Finito il filo da tessere, finisce il filo della vita (come nella mitologia della tre Parche): la marangia è ormai appassita el’ultima penna, quella bianca, viene rimossa. Si prepara il rito finale: la Caremma viene tolta dal luogo dove è stata per le sette settimane di penitenza e viene appesa con un filo ad un palo e a mezzanotte, al suono delle campane che annunciano la Resurrezione, viene data alle fiamme purificatrici, spesso accompagnata dall’esplosione di pedardi. Ha inizio il periodo della salvezza, della resurrezione e della purificazione dell’anima: la Quaresima è finita.

Fonte: Luigi A. Gaetani (ONLUS “trozzella.it”)